Come ti capisco Giuseppe! Non so se questo tuo racconto sia autobiografico... Suppongo lo sia. Benché di qualche anno più giovane di te, quei viaggi verso la "Terronia", in estate, li ho compiuti anche io. Non erano gli anni Sessanta, ma la fine dei Settanta e l'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, e l'auto che utilizzavamo per arrivare fino in Lucania - dove Cristo non mise mai piede - era una Fiat 127 di un colore blu molto cupo. Alla macchina le avevamo anche dato un nome: si chiamava Isotta come la protagonista della canzone di Pippo Franco che a quei tempi andava di moda tra i bambini. Ricordo che quando cambiammo auto né io, né mia madre, né mio fratello riuscimmo a trattenere le lacrime. L'unico entusiasta era mio padre che, finalmente, dopo tanti sacrifici, era riuscito ad acquistare una Peugeot 309... Agli occhi di mio padre la nuova macchina era una deluxe.
I miei pensieri si rivolgevano solo a ciò
che ci aspettava: l’impresa di attraversare l’Italia in Cinquecento. L’avventura
di Marco Polo mi sembrava una bazzecola al confronto.
Papà tornò a casa, una calda sera di
giugno, con una strana espressione dipinta sul volto. Era un misto di
complicità, di riflessione e di suspense.
- Allora, che ti hanno detto? – chiese la
mamma, mentre rimestava il minestrone.
Lui si sedette al tavolo di cucina e
sospirò. Rimase a lungo in silenzio.
Mio fratello Lorenzo e io stavamo giocando
a dama. Ci interrompemmo e lo guardammo come se fosse un giudice in procinto di
emettere la sentenza.
- Il signor Sertori – disse - mi ha assicurato… Basta andare con prudenza,
insomma, senza affaticarla. Ogni settanta-ottanta chilometri ci fermeremo per
far respirare il motore. La Cinquecento potrebbe portarci fino a Capo
Nord.
Noi invece andavamo a sud. Destinazione:
Alta Irpinia, terra d’origine di mio padre. Da Sondrio a Lacedonia, un viaggio
di mille chilometri.
Era il giugno del 1961. La mia famiglia si
accingeva a vivere la prima villeggiatura in automobile. Mio padre era maestro
elementare, aveva l’estate tutta per sé.
La Fiat Cinquecento era nuova di
zecca, verde prato, targata SO-15797: uno scatolino dalla vernice e dalle
cromature fiammanti, con un odore di plastica all’interno che ne garantiva la
verginità. Anche per noi era arrivata, dunque, la libertà su quattro ruote.
E venne il giorno della partenza. Io e i
miei fratelli eravamo elettrizzati. Mamma e papà facevano fatica a tenerci a
freno, con tutta l’ansia di non dimenticare qualcosa. Dovevamo attraversare
l’Italia in gran parte della sua lunghezza, e poi ci aspettavano due mesi di
soggiorno in quel paese sperduto sulle gialle colline dell’Irpinia.
Ci mettemmo in macchina alle sei e trenta
del mattino. Dopo quasi tre ore raggiungemmo Lecco, distante ottantatre chilometri.
La tortuosa strada lungo la sponda orientale del lago di Como era, anche per i
tempi, trafficata, e ci aveva costretto a un’andatura da lumaca. Mio padre
aveva voluto attenersi scrupolosamente ai consigli della concessionaria
Sertori: dopo settanta chilometri, si era fermato per quasi mezzora, aveva
aperto lo sportello posteriore e aveva fatto riposare il motore.
Viaggiavamo scomodi, ma felici. La
macchina era sovraccarica, con quel muro di valige legate al portapacchi. Sul
sedile anteriore, mia madre teneva in braccio Marco, il fratellino di tre anni.
Su quello posteriore, mia sorella Elisabetta, io e Lorenzo. Stavo seduto nel
mezzo perché volevo vedere la strada, e poi mi piaceva osservare le manovre che
papà faceva nella guida.
Ma presto venne la stanchezza. Il ronzare
del motore mi metteva sonnolenza, accentuata dal caldo che i vetri abbassati
non riuscivano a mitigare. I miei fratelli, costretti contro i finestrini, ogni
tanto manifestavano insofferenza. Mia madre faceva di tutto per tenere buono
Marco.
Verso le tre del pomeriggio giungemmo alla
prima meta del viaggio: una cascina presso Mantova, dove viveva una cugina di
mia madre.
- Benvenuti – ci accolsero lei e il
marito.
Mio padre era stravolto per la guida.
Ricambiò i saluti e fece notare, con evidente orgoglio, la nuova vetturetta che
ci aveva portati sani e salvi fin lì.
- Quanto pensi di impiegare per arrivare
al tuo paese, Antonio? – chiese Elvia, la cugina di mia madre. Non aveva la
minima idea dove fosse Lacedonia. Sapeva solo che si trovava in Terronia e che
i chilometri si dovevano contare almeno nell’ordine delle migliaia.
- Per domani sera – rispose con sicurezza
papà.
Così ci riposammo e godemmo della calda
ospitalità della cascina.
Io e i miei fratelli facemmo una certa
amicizia con i figli di Elvia. Mi rimase impressa la loro lingua (il dialetto
mantovano), che mi faceva l’effetto di un idioma straniero. Mantova mi sembrava
distante da Sondrio, quasi come l’Italia dall’America.
Il giorno dopo, prestissimo, ci rimettemmo
in marcia.
Mio padre cantava La montanara e O
sole mio. Teneva il volante con una mano e con l’altra gesticolava al ritmo
della musica. Anche noi eravamo allegri. Marco, sulle ginocchia della mamma, si
muoveva come un folletto.
A lungo andare, i rettifili del Ferrarese
e del Ravennate ci provocarono una torbida sonnolenza. L’asfalto riverberava.
Fughe di pioppi e distese di campi rendevano monotono il nostro procedere. Ogni
ottanta chilometri ci fermavamo e uscivamo per sgranchire le gambe. Mi sentivo
come una sardina tolta dalla scatola. Prima di arrivare a Rimini, mio padre si
esibì nel quarto sorpasso di un camion. Gli altri tre risalivano al giorno
prima, lungo le statali di Bergamo e Brescia.
- Ce la fai? – chiese con apprensione mia
madre, sporgendosi a sinistra per vedere a sua volta se la strada fosse libera.
- Tranquilla, Wanda.
- Arriva una macchina, stai attento! –
gridò lei.
- Sì… è passata. Adesso ci provo.
Con uno strappone scalò dalla quarta alla
terza, fece tossire il motore, e via…
Ma il rettilineo stava finendo e la
piccola automobile arrancava disperatamente per rientrare nella sua corsia. Ce
la facemmo per un pelo. Dalla curva sbucò una Fiat 1400, che ci incrociò
con un rabbioso e lacerante suono di clacson.
Poi vedemmo il mare.
Il viaggio per un po’ divenne più
piacevole, ma ben presto ritornarono la noia e la fatica.
Bisognava fare tutti quei percorsi urbani.
Non c’erano tangenziali, a quell’epoca, nemmeno circonvallazioni. Le cittadine
adriatiche venivano attraversate nel centro, là dove la Statale 16 si
trasformava in lungomare. Un vero stillicidio.
Fano, Senigallia, Falconara Marittima. E
poi Ancona.
Il motore della Cinquecento si era
surriscaldato e dovemmo fermarci un po’ più del solito.
Arrivammo a San Benedetto del Tronto che
faceva ormai notte. Altro che raggiungere la meta in serata! Passammo la notte
sul ciglio della strada, fra i pini marittimi, mentre cantavano i grilli e un
venticello portava aria salmastra. Per un po’ ci assopimmo in macchina. Poi
papà e mamma stesero una coperta nell’erba secca. Così ci allargammo, facendo
le cinque di una fresca mattina d’estate.
Quando ci rimettemmo in macchina, papà
disse: - Fra sessanta chilometri siamo a Pescara, e quando saremo a Pescara è
come se fossimo a casa. Là, comincerò a sentire l’aria del mio paese.
Pescara la superammo solo dopo due ore. E
poi, giù, lungo il rimanente della costa adriatica, verso Termoli.
Era passato mezzogiorno, quando lasciammo
la costa per inoltrarci nel Tavoliere delle Puglie.
La fatica stava diventando insostenibile.
La Cinquecento emetteva una specie di ronzio soffiante, segno che il
motore era messo a dura prova.
Ci trovavamo in una specie di deserto, tra
campi di grano a perdita d’occhio da poco mietuti.
Lungo un rettilineo in pendenza, dalle
parti di Serra Capriola, mia madre osservò: - Antonio, perché vai così adagio?
Non passa nessuno… e siamo in discesa.
- Ma che dici? – fece mio padre. – Non
vedi che siamo in salita?
I miei tre fratelli si erano addormentati.
Io provavo la stessa sensazione di mio padre, ma ebbi il dubbio che fosse
quella giusta.
La scatola su quattro ruote era diventata
un forno, sotto il sole spietato del Tavoliere. E fu con vero coraggio, con la
forza che dovevano avere i grandi pionieri, che riuscimmo ad attraversarlo.
Quando fummo sui primi contrafforti
dell’Appennino, tra i monti della Daunia e quelli dell’Irpinia, papà accostò la
macchina per la solita rinfrescata al motore. Ci fece scendere e ordinò: - Respirate tutti a pieni polmoni. Ecco l’aria
del mio paese!
E quando poi arrivammo, la nostra fu
un’entrata degna dell’impresa che avevamo compiuto. Mentre affrontavamo le
ultime curve che ci portavano in paese, la gente ci guardava con vero stupore,
si chiedeva da dove venisse quella macchinetta verde prato, stipata di gente e
schiacciata da una pila di valige. La vedevano passare, e provavano a leggere
la targa: donne sedute a ricamare sull’uscio di casa, il barbiere che aspettava
il primo cliente del tardo pomeriggio, il sacrista della Chiesa di Santa Maria
che apriva il portale per la messa vespertina. E giunti nel piazzale antistante
l’Istituto Magistrale, prima di imboccare il vicolo dove sorgeva la casa dei
miei nonni, dovemmo sostare a lungo dietro una fila di contadini con muli e
asini che tornavano dalla campagna. E quella fu l’ultima coda, fu l’ultimo
rallentamento di quel viaggio durato tre giorni.
La mamma, stravolta per la stanchezza,
disse: - Ecco, bambini, siamo a Lacedonia. Mille chilometri da casa nostra. Qui
ci staremo per quasi due mesi.
Ma il mio pensiero andava al prossimo
viaggio. E pensai che due mesi sarebbe stato un lasso di tempo troppo breve,
tra l’andata e il ritorno.
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