domenica 22 novembre 2015

Pub (quarta e ultima parte)

Pagai quasi duecento euro per uscire dal locale. Salimmo sulla macchina di Lidia. Avevo preso la sua perché, quel giorno, Lidia era rientrata dopo di me e aveva parcheggiato il suo Golf Gti in garage dietro la mia Clio. Non avevo avuto voglia di spostare le auto e così avevo preso le chiavi della Volkswagen dalla mensola del tinello.

La ragazza mi fece guidare per alcuni chilometri. Pensavo volesse condurmi in un motel, invece mi portò in una zona poco urbanizzata dove c’erano solo dei campi e qualche sparuta macchia d’alberi. Mi fece discendere per una stradina sterrata dove nemmeno una talpa sarebbe stata capace di orientarsi. Iniziai a non sentirmi sicuro, ma ormai ero lì e volevo andare fino in fondo. Un desiderio fortissimo mi spingeva a contrastare  quel po’ di buon senso che mi era rimasto e a forzare una ormai risibile resistenza. Se anche mi fosse accaduto qualcosa non me ne sarebbe importato niente.
La ragazza cominciò a baciarmi sul collo e ad armeggiare con la cerniera dei miei jeans, poi, prima di sfilarmi i pantaloni, mi tolse la maglietta. Avevo il cazzo duro come il pestello per schiacciare le noci. Fu allora che mi sentii afferrare per un braccio. Fui catapultato fuori dalla macchina. Due tizi belli robusti mi si piazzarono davanti. La luna galleggiava alle loro spalle, pallida come l’ostia della prima comunione.
Sono morto, pensai. E invece no. Mi diedero solo qualche botta, mi spogliarono e mi rubarono la macchina di Lidia. 
Ero rimasto in mutande. Tremavo e non sapevo se era per la paura, per il freddo, per quello che sarebbe successo con mia moglie o per la scarica di adrenalina che si stava svuotando come un tubetto di dentifricio. Non riuscii neppure a piangere. Anzi, ricordo che mi misi a ridere. Ridevo e tremavo. Un pazzo… Ecco a cosa mi ero ridotto, un pazzo pronto per un Tso.
Raggiunsi le prime case, non suonai alla villetta bella, quella attorniata da eucalipti e betulle le cui chiome si stagliavano vibranti oltre il muricciolo di cinta. Chiesi invece aiuto in un’abitazione più modesta, una casa bifamiliare.
«Sono stato rapinato, per favore può aiutarmi. La prego.» Cercai di essere convincente. Ma dall’altra parte del citofono sentivo la confusione che quella mia richiesta, giunta nel cuore della notte, stava suscitando.
«Perché non chiama i carabinieri» disse la voce di un uomo dopo un po’.
«Mi hanno preso tutto, anche il cellulare.»
«Allora li chiamo io i carabinieri. Lei resti lì, non si muova. Arriveranno subito.»
«No… No! Non è il caso che faccia intervenire i carabinieri.» Appoggiai la testa contro il citofono. «La supplico, non avvisi i carabinieri… Non li chiami.»
Per qualche secondo non udii più nessuna voce. Rimasi attaccato al muro del citofono, mi accorsi che era dotato di videocamera. In quel momento, una famiglia mi stava guardando. Cosa vedeva? Un uomo adulto, derelitto, prosciugato nell’anima? Probabilmente no. Probabilmente vedeva solo un coglione, ma fu abbastanza per muovere quelle brave persone a un briciolo di pietà. Aprirono il cancello, entrai, ma rimasi ad aspettare che venisse fuori il padrone di casa.
Era un uomo sulla settantina, grosso e nerboruto. Mi fece portare la tuta da ginnastica sporca, non volle sapere cosa mi fosse realmente accaduto. Continuava a guardarmi con sospetto. Da una finestra al primo piano intravidi il volto di un bambino che aveva lo stesso sguardo, solo un po’ più spaventato, dell’uomo che mi stava dando aiuto. Non poteva essere suo figlio. Forse un nipote ospite dai nonni.
«Ehi! Ragazzo, non so cosa ti sia successo. Non lo so e non lo voglio sapere, ma una cosa te la voglio dire: la vita non fa così schifo come può sembrare. Anche se non riusciamo a fare quello che vorremmo, l’importante è non mollare.»
Perché mi diceva quelle cose? Ero così messo male da suscitare la pietà di uno sconosciuto? Evidentemente sì.
Annuii a quelle parole e finalmente scoppiai a piangere. Singhiozzavo ancora quando arrivò il taxi che mi portò via.

Il barista tira fuori una banconota da cinquanta e dice: «Trenta sono per la birra, che non mi hai ancora pagato e venti per il disturbo». Poi infila il portafogli nella tasca della camicia dell’ubriaco.
«Che lavoro fai?»  mi chiede a bruciapelo.
Alzo le spalle e dico: «Collaboro con un giornale locale, nulla di che».
«Si guadagna bene a scrivere i cazzi degli altri?»
«No» rispondo con sincerità.
«Qui al pub cercano, se ti va ci metto una buona parola col capo.»
Noto sull’avambraccio sinistro del barista un tatuaggio, è lo stemma dei Guns N’ Roses.
«Bello!» dico e glielo indico.
«Sono forti… Axl Rose è il mio mito. Sono un musicista sai?»
«Non avevo dubbi.»
Sistemiamo meglio l’ubriaco sul sedile della sua X1. Dietro troviamo la sua giacca. Lo copriamo. Lui si muove appena.
«Ora vado a casa» mi dice. «Vacci anche tu, e fammi sapere per quella proposta. Mi trovi qui quasi tutte le sere.»
«Okay» e lo saluto con la mano.
Il barista si allontana. Svolta un angolo del fabbricato. Poco dopo sento il rombo di una moto. È una Harley che esce sparata sul parcheggio e poi si dilegua lungo la strada, seguita da lingue di fuoco. Nell’aria lascia l’odore dei gas di scarico.
Vorrei avere una storia da scrivere. Vorrei che Lidia mi avesse perdonato. Vorrei smettere di correre dietro a certe perverse illusioni…
Accetterò quel lavoro e, nel tempo libero, proverò a scrivere di nuovo. Sento che anche questa volta il blackout è agli sgoccioli. Sta per finire. Mi avvio alla macchina, cerco nel porta cd un album adatto. Non ho i Guns, non fa niente. Infilo nel lettore Ligabue, il buon vecchio Ligabue:

Certe notti la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei…


1 commento:

  1. Il racconto è un susseguirsi fitto di parole per rendere evidente i lati oscuri degli uomini. Interessante l'incontro ad un bancone di un pub di tre stati d'animo che distolgono le proprie insoddisfazioni

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