C’era mancato poco però che lo
pubblicassi quel romanzo da quattro soldi. C’ero andato davvero vicino, poi
tutto era sfumato. Il titolo non era granché e a dirla tutta neppure la storia,
ma non era scritta male e un editore lo avevo trovato. Mi aveva chiesto di
sistemare un po’ la trama dandomi qualche dritta, di cambiare il titolo,
insomma, di aggiustarlo un po’. Avevo tre mesi di tempo per rendere il testo
dignitoso per la stampa. Un giorno mi chiama l’editore al telefono e quando capisco
che è lui riattacco la cornetta. Lui richiama per tutto il pomeriggio e la sera
seguente, mi lascia qualche messaggio in segreteria, ma io non gli rispondo
mai. Mi spedisce anche delle mail, che mi guardo bene dall’aprire. Alla fine si
stanca e mi manda a quel paese.
Il tizio del bar è knockout. È steso con la testa sul
bancone e le braccia larghe. È un miracolo che sia ancora seduto sullo
sgabello. Le compagnie fuori del locale si sono date e il barista ha finito di
lavare i bicchieri.
«Lo conosci?» domando.
«So chi è» risponde il barista.
«Offrimi un’altra sigaretta e
fammi una chiara piccola.»
Il tizio dietro al bancone
solleva il sopracciglio sinistro e fa una smorfia con l’angolo della bocca,
però mi tira dietro l’ennesima sigaretta e mi prepara la birra. Sono le due e
mezza. Gli chiedo perché non mi abbia già fatto uscire a calci nel culo. Lui si
avvicina appoggiando gli avambracci sul legno unto del bancone e dice: «Perché
sei uno scrittore sfigato che non ha pubblicato un cazzo, ma… non si sa mai,
magari diventi famoso e finisce che mi sputtani in qualche storia. Non voglio
essere proprio io il troglodita che ha maltrattato il nuovo Bukowski.»
Sorrido per l’ironia e perché
l’idea di diventare famoso come quel vecchio puttaniere alcolizzato mi
solletica la fantasia.
Una volta, ero conciato proprio
male, i miei amici mi trovarono carponi sull’orlo di una pozzanghera in mezzo a
una strada. Mi abbeveravo a quel brodo oleoso come un cane con la rogna. Si
misero tutti a ridere e finii per diventare lo zimbello del quartiere. Mi
soprannominarono Pozza. Io li lasciai fare. Quella storia andò avanti per un
po’, fino a quando, una sera, al biliardo, proprio mentre stavo per imbucare la
otto e chiudere la partita, mi chinai e feci partire una scorreggia che fece
ammutolire il locale.
«Cazzo Pozza, che schifo! Che
ti sei mangiato a cena il compost del vicino?» disse qualcuno.
Poi il Biondo, che era un po’
il nostro capo combriccola e che, se ci si metteva, sapeva essere più stronzo
della governante di Heidi, iniziò a sfottere: «Pozza Puzza… Pozza Puzza… Pozza
Puzza…»
Sembrava un bambino dell’asilo.
Anche gli altri si unirono alla cantilena: Pozza
Puzza… Pozza Puzza… Pozza Puzza…
La stecca frustò l’aria come la
katana di un samurai e si schiantò sui denti del Biondo che cominciò a sputarli
uno a uno. Gettai sul tavolo da gioco quel che restava dell’asta e me ne andai
via.
Ricominciarono a chiamarmi col
mio vero nome.
Portiamo il tizio ubriaco fuori
dal pub a forza di braccia. Lui si fa trascinare senza neppure tentare di
mettere un piede davanti all’altro. La testa gli penzola floscia come una palla
di stracci appesa a una giostra.
«Questo è in coma etilico, sarà
meglio chiamare un’ambulanza» dico.
Il barista ci pensa su un
momento, lo fa sedere su una panchina della veranda e lo prende a schiaffi.
L’uomo mugugna qualcosa di incomprensibile.
«Ehi! Come ti senti? Dobbiamo
chiamare qualcuno?»
L’ubriaco solleva la palla di
stoffa, un rivolo di bava gli cola dalla bocca. Ha gli occhi semichiusi e i
capelli scomposti e appiccicati alla fronte. Un velo di barba scura gli colora
le guance e il mento. Sotto i lampioni gialli dell’illuminazione stradale il
contrasto tra la barba e il pallore del viso è assurdo. Ci stiamo prendendo
cura di un fantasma.
«Non voglio nessuno» riesce a
dire con uno sforzo che sembra eguagliare quello delle dodici fatiche di
Ercole: «Portatemi in macchina.»
Nel parcheggio ci sono solo due
macchine: la mia auto è una Clio del 2007, ammaccata sulla fiancata posteriore
dal 2008, e c’è un BMW X1 appena uscito dal concessionario. La moto del
barista, invece, è sul retro del locale.
Infilo la mano nelle tasche
dell’uomo e trovo le chiavi della sua BMW. Mentre lo trasportiamo l’uomo sbocca
tutta la birra che si è buttato giù quella sera. Mi insozza una scarpa e avrei
voglia di lasciarlo lì per terra, con la faccia incollata al suo vomito. Ma il
barista non è della stessa idea.
Ora il tizio sembra reggersi da
solo. Prima di arrivare alla macchina si piega in due ancora una volta, ma
quello che gli viene fuori dalla cavità orale è solo un po’ di bile schiumosa.
«Sto bene… Sto bene, grazie…
Grazie» dice, mentre barcolla nel parcheggio. Si fruga nella tasca alla ricerca
del mazzo di chiavi che però non riesce a trovare. Faccio scattare il
telecomando e le frecce della X 1 illuminano lo spazio desolato del posteggio.
Il tizio sembra essere colto di sorpresa, poi si gira e capisce. Gli tiro le
chiavi, ma lui non le afferra e gli cadono fra i piedi. Le raccoglie, apre la
portiera, e s’infila sul sedile in pelle della sua bella macchina.
Anche io sono un po’ ubriaco,
mi gira la testa e mi brucia maledettamente lo stomaco. Il barista s’infila una
sigaretta in bocca e mi porge il filtro arancione dell’ultima paglia che sbuca
dal pacchetto sgonfio. Fumiamo insieme. Il tizio ha reclinato il sedile, non
sembra intenzionato a guidare in quello stato. Meno male, ha più sale in zucca
di quel che credevo.
Ci avviciniamo. «Guarda che non
mi hai pagato gli ultimi giri» gli dice il barista. L’uomo russa. S’è
addormentato. Il mio nuovo amico lo sposta su un fianco e, come avevo fatto io
per le chiavi, gli infila la mano in una delle tasche posteriore dei pantaloni.
Recupera il portafogli dell’ubriaco e lo apre. Dentro, in uno degli scomparti,
c’è la foto di una bella donna dagli occhi chiari e di due bambini biondi.
Assomigliano alla madre.
«Se n’è andata e s’è portata
via i figli… Ecco perché si riduce così» mi spiega il barista. «Si scopa la sua
segretaria, la moglie l’ha scoperto e gli ha chiesto di smetterla, lui però non
c’è riuscito… Una vita di successo andata a puttane.»
Guardo ancora il ritratto di
quella donna dallo sguardo intelligente, ma un po’ triste. Il sorriso
spensierato dei ragazzi. I tre sono stati ripresi dall’obiettivo della
fotocamera immersi nel verde di un giardino lussureggiante. Che strano, penso:
una stampa fotografica conservata nel portafogli. Non ce l’ha più nessuno. Le
foto di famiglia, oggi, le affidiamo ai cellulari. Sono i custodi tecnologici
dei nostri affetti.
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