Il pub puzza di fritto e di
sudore. Di fumo stantio di sigarette. Sono anni ormai che il fumo è stato
bandito dai locali, ma evidentemente il suo odore s’è talmente impregnato nel
legno del bancone e in quello dei tavoli, che si sente ancora, soprattutto se
sei abbastanza sbronzo da pensarci, e se quello che desideri è proprio il tiro
di una Marlboro o di una sigaretta di qualsiasi altra marca.
«Ho smesso di fumare circa
cinque anni fa, ma forse è ora di ricominciare» dico al tizio seduto su uno
sgabello a un paio di metri da me.
Il tizio è messo male, anch’io
non sono una rosa, ma lui sta peggio. Non mi sente neppure. Sembra avere
affogato i suoi drammi nella birra. Sta stringendo un grosso boccale che si
porta goffamente alla bocca con la
destra. È così bevuto che all’ennesimo tentativo di sorseggiare la bionda
bevanda si spacca il labbro superiore con il bordo del bicchiere. La birra gli
finisce sulla camicia mentre il labbro inizia a sanguinare, ma non sembra che
il suo sistema nervoso abbia informato il cervello della ferita.
«Ehi!» gli grido «Ce l’hai una
cazzo di sigaretta?»
Quello si gira verso di me. Ha
lo sguardo vacuo di uno che fatica a mettere a fuoco, mi fissa senza
rispondermi poi solleva la birra in segno di saluto.
«Te la do io una sigaretta, non
vedi che non si regge in piedi. È il solito cliente che devo sbattere fuori
quando chiudo» mi dice il barista che nel frattempo mi ha allungato una cicca.
La prendo e me la infilo in bocca. «Non ho da accendere.»
Il barista tira fuori uno zippo
d’argento con inciso qualcosa che non riesco a decifrare e fa scattare la
fiamma. Prima di avvicinarmi con la sigaretta lo guardo negli occhi. Lui fa un
cenno di assenso con la testa e dice: «Non preoccuparti, a quest’ora nessuno
romperà per una sigaretta».
Anche lui se ne accende una e
inizia a passare lo straccio sul bancone prima di dedicarsi ai boccali da un
litro rovesciati sul piano alle sue spalle e ancora bagnati dall’acqua della
lavastoviglie.
Il posto è un Irish pub, uno di
quelli aperto alla metà degli anni Novanta in un capannone industriale
dismesso. All’epoca faceva un sacco di soldi, oggi non lo so. Era una vita che
non ci mettevo piede. Il locale era un po’ cambiato, non tanto, ma un po’ sì.
L’ubriacone e io non siamo gli
ultimi clienti della serata. Ci sono ancora un paio di compagnie che vociano su
alcuni tavoli all’aperto. Presto se ne andranno. L’orologio a muro a forma di
folletto, attaccato a un chiodo, accanto all’insegna della Guinnes, mi dice che
manca ancora un quarto d’ora alle due.
«Sono uno scrittore» dico
all’improvviso, senza rivolgermi a nessuno in particolare.
«Ah sì! E che hai scritto?» mi
fa il barista girandosi. Sta asciugando un bicchiere e dalla bocca gli pende la
sigaretta. Lo guardo con ammirazione, perché non sono mai stato capace di
tenere la sigaretta così e di fumarla interamente senza stringerla tra le dita.
A un certo punto, prima di smettere, mi erano anche diventate gialle.
«Ho scritto un sacco di cose.»
«Tipo?» mi incalza ancora il
barista.
«Tante…» rispondo, roteando in
aria il piccolo calice ambrato di liquore. «Tante di tutti i tipi.»
«Dimmi un titolo, magari è un
libro che ho letto.»
Che cazzone che sono! Penso.
Pure il barista colto dovevo trovare.
«Una libbra di scimmia».
Il barista scuote la testa:
«Mai sentito».
«Per forza, non è mai stato
pubblicato!» gli dico e ingollo d’un fiato l’amaro che avevo ordinato.
Nessun commento:
Posta un commento