fermiamoci
un momento
e scrutiamo
oltrepiù dentro
più nel fondo dell’umanità
nella solitudine delle folla
Alla stazione del treno, seduta sulla panchina, la ragazza attendeva
tranquilla il chiudersi delle barriere. Il dindondare del campanello che annunciava
la fermata. Nulla sembrava turbarla. Una calma tutta orientale era disegnata
sul suo bel viso asiatico, un viso che accoglieva, sereno, il sole caldo di una
primavera frettolosa. Bella e giovane, poteva forse avere vent’anni. La osservai
da lontano, ancora prima di salire sulla carrozza, poi la guardai più da vicino, quando anche
lei si sedette sul sedile di fronte al mio.
Trassi un
libro che stavo leggendo, ma continuai di tanto in tanto a indirizzarle qualche
furtiva occhiata. Alzavo lo sguardo dal libro non appena lei rivolgeva il
suo fuori dal finestrino.
E’ fastidioso
essere fissati da un estraneo. E’ come se qualcuno cercasse di rapire un
silenzio, si può defraudarlo senza che se ne accorga, semplicemente
osservandolo. Un sorriso, uno sguardo, una malinconia rivolti altrove, non a
noi, che, invece, rubiamo quel breve attimo in cui si palesa uno stato d’animo.
E il ladro interpreta, indaga, scandaglia fondali sconosciuti del cuore altrui.
Tuttavia si può rubare con discrezione, succede quando la curiosità è innocente
e non morbosa. Quando ci si accorge di trovarsi di fronte ad un altro essere
umano.
Pensavo a
queste cose e guardavo la ragazza indiana dalla pelle bruna e dagli occhi
profondi e scuri, improvvisamente ebbi l’impressione di trovarmi davanti ad una
delle “ragazze senza veli di Sigiriya”. Esse sono state dipinte più di
millecinquecento anni fa sulle rocce della montagna del Leone, nell’isola di
Ceylon. Quella ragazza del treno era una di loro, aveva preso vita uscendo da
quegli ancestrali affreschi rupestri ed ora se ne andava in giro come se
appartenesse da sempre al mondo.
Aveva
vent’anni ed era bella la ragazza di Sigiriya. Bella per la semplicità che
aveva di essere una creatura. Cessai di contemplarla quando una comitiva di
giovani scolari, in gita d’istruzione, fece irruzione nella carrozza.
A Milano, in
Cadorna, mentre mi dirigevo verso la metropolitana, guardai per l’ultima volta
la ragazza di Sigiriya allontanarsi. Camminava a pochi passi da me, lungo la
banchina. Le lanciai un’ultima occhiata e poi si perse nel mare di pendolari
che la inghiottì per sempre.
Un quadretto davvero gustoso, scritto in modo impeccabile. Mi è piaciuto.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino