Fa un freddo cane. Nicola lo sente che gli morde le
ossa da dentro e non può farci niente. Il cappotto logoro che gli hanno
regalato i volontari della Caritas non basta a tenerlo al riparo dall'aria
gelida dell'inverno.
Se ne sta nascosto dietro il grande pino, seduto sui resti di una panchina di cemento. Cerca di non farsi notare troppo, alza il bavero della giacca, sarebbe difficile spiegare la sua presenza lì a qualcuno che lo riconoscesse. Sarebbe difficile spiegare il suo stato. Nicola sa di essersi trasformato in un relitto ambulante. In paese conoscono la sua storia. Un paese piccolo sa sempre tutto, crede di sapere...poi magari non sa nulla dei dettagli, e i dettagli fanno la differenza. Le sfumature riempiono i vuoti di una storia, ma sono risibili davanti al gusto del pettegolezzo.
Quando Nicola era ancora sposato con Cristiana, tanto
per dire, non si curava affatto dei pettegolezzi. Alzava semplicemente le
spalle in segno di non curanza.
«Ci sarà pure una ragione che noi non
conosciamo...Chissà davvero come vanno certe cose. Tu lo sai? Ci puoi mettere
la mano sul fuoco?...E allora! perché dai retta alle chiacchiere?» diceva
sempre.
«Uff!! con te non si può mai dir nulla» sospirava
sconsolata la moglie.
No, Nicola non amava il pettegolezzo, perché era
consapevole dei danni che poteva provocare.
E ora ridotto com'è....
Dietro il grande albero...
Seduto su quella vecchia panchina che il comune non ha
ancora demolito.
Accanto al bidone di rifiuti mezzo incendiato.
Ad una ventina di metri c’è l'ingresso della scuola
materna.
Se qualcuno lo nota e lo riconosce, succede un bel
pandemonio.
Se qualcuno lo nota e non lo riconosce, potrebbe
chiamare i carabinieri e sarebbe anche peggio.
Ti prego...ti prego...ti prego...Non farmi notare,
pensa Nicola senza rivolgersi a nessuno in particolare. Neppure a Dio.
E Nicola, quasi quasi, si trasforma in un fantasma.
Continua ad avere freddo, continua a battere i denti, continua a vedere cosa gli
sta intorno. Ma nessuno dà l'impressione di scorgerlo. Allora, lui, timido, s’affaccia
da dietro il tronco grigio e si mette a guardare dall'altra parte della strada.
Sono tante le mamme e i nonni che si affollano al
cancello d'ingresso della scuola materna. È uno sciame vociante di adoratori dei
propri piccoli tesori.
Ci sono pochi papà, nota Nicola. Sono tutti al lavoro:
negli uffici o in fabbrica o chissà dove, e lui è l'unico papà invisibile che
aspetta di veder uscire suo figlio. Lo riconoscerà dopo due anni e mezzo? Sarà
cresciuto? Sarà un altro bambino...
Si! lo ha riconosciuto. Lo ha riconosciuto ancora
prima di veder spuntare la suocera che gli corre dietro.
E si! è cambiato. Davide s’è fatto più alto, ha più
capelli, uno sguardo intelligente e allegro che all'epoca, prima che lui lo abbandonasse,
prima che si perdesse dentro le bottiglie di liquore, era soltanto un disegno
spiritoso su un faccino da putto.
Mi manchi Davide, mi manchi da impazzire.
Adesso
Davide è raggiunto dalla nonna che lo afferra per un lembo della giacca. Lui
ride divertito e cerca di scappare dalla stretta, ma la nonna ha un guizzo e se
lo carica a fatica in braccio. Nonna e nipote escono dal cancello dell’asilo e
girano a sinistra, non si avvicinano neppure al pino dove sta aggrappato Nicola
con le lacrime agli occhi.
Nicola resta lì attaccato a quell'albero, al freddo,
mentre singhiozza e piange. Le dita grattano la corteccia di legno. Una crosta
rugosa si stacca e cade sul bordo del marciapiede. Nicola continua ad affondare
le unghie sporche nel tronco, fino a quando iniziano a sanguinare e il suo
sangue si mischia alla resina viscosa che cola dalla pianta. La barba sale e
pepe del “papà fantasma”, così ispida, si imbeve del fiume che gli sgorga dagli
occhi e s’impaluda col moccio del naso. Continua a guardare quei bambini che stringono,
fiduciosi, mani adulte. Nicola li guarda fino a quando anche l'ultimo ragazzino
non lascia la scuola e la suora corre a chiudere il cancello.
L'ultimo bambino che esce è un po' imbronciato, la sua
mamma ha fatto tardi, lui non le rivolge neppure la parola. La mamma gli fa una
carezza, ma il bimbo non ha voglia di coccole e scosta la testa immusonito.
Solo per un ritardo di pochi minuti ed è già una
tragedia, pensa Nicola. Chissà se
dovessi presentarmi da Davide dopo tutto il tempo che è passato.
Non pensarci
se non vuoi soffrire troppo gli
sussurra la piccola Sherley Temple, con una vocina.
Nicola guarda Sherley stupito, la bambina gli fa un sorriso
e gli indica col ditino proteso l'edificio della scuola materna parrocchiale.
Il povero barbone alza di nuovo lo sguardo umido, la fronte gli si corruga e
intorno a lui non è più inverno, ma una giornata di primavera.
Le foglie sui rami degli alberi sono verdi, il sole è
tiepido, gli uccelli cantano e tanti bambini giocano all'aperto. Anche Nicola
gioca insieme ai suoi amici, hanno tutti la testa troppo grande e rotonda e
hanno le manine grassocce e a qualcuno già mancano i dentini da latte. L'anno prossimo
si va alle elementari, niente più coccodrilli che escono dalle aiuole delle
suore, niente più lavoretti con la colla e il cartone, ma quaderni colorati e
lettere da trascrivere. La prima classe è però ancora lontana, addirittura a
settembre, dicono. E chissà quand'è settembre.
Suona una campanella, la ricreazione è finita. Nicola
segue malvolentieri i suoi compagni di gioco. Il cortile si svuota velocemente,
sui gradini per entrare ci sono troppi bambini che si accalcano, troppi per
passare tutti insieme. In mezzo a loro
c'è anche Flavio, col suo visino da monello. Non sa che morirà prima di
compiere vent’anni in un incidente.
Ma adesso c'è anche lui e Nicola gli va vicino ed
entrano insieme facendosi della boccacce assurde.
Sherley gli tira la manica del cappotto e Nicola si
ridesta dai suoi sogni. Non è più un bambino, ma un adulto. Un uomo solo,
brutto, incattivito, deluso. Un fallito senza speranza. Si stacca a fatica da
quell’albero che ha stretto con tanta foga e si dirige verso la stazione del
treno che è lì vicino. Una stazione modesta con la biglietteria che, da sempre,
guarda la navata centrale della chiesa. E mentre Nicola è in mezzo alla strada,
tra la chiesa e la stazione, si volta indietro e s’arrampica sulle scale del
sagrato.
Dentro la chiesa è buio. Rilucono le candele. Nicola
si avvicina e si accorge che non sono candele di cera, ma sono surrogati di
plastica che hanno in cima una piccola lampadina. Sono candele elettriche che
non tremolano, non scaldano, non sciolgono niente. Sherley è lì con lui, c’è
sempre quando Nicola si sente triste.
Un giorno, questa piccola stellina del grande schermo,
gli si è presentata come se fosse reale e lui non l’ha respinta. I due però
parlano poco si tenengono soltanto un po’ di compagnia.
Alle volte l’adorabile attrice gli appare sbiadita
altre volte è satura di colori. È una cosa che prima o poi le chiederà:
Come mai hai
sempre qualcosa di diverso?
Nicola e Sherley si sono seduti su una panca e il
primo blatera una preghiera tra i denti. E’ un Padre nostro e poi recita
un’Avemaria e poi si alza per uscire senza attendere la sua amica che lo lascia
allontanarsi da solo. Fuori, dato che è inverno, il pomeriggio volge al termine
e il crepuscolo non è lontano da venire. Nicola si cala in testa il berretto di
lana sudicio e attraversa la strada. Ha appena il tempo di scorgere le barriere
della stazione abbassarsi, di sentire l’eco di uno scampanellio e di vedere
Sherley che è immobile sul sagrato della chiesa.
Una frenata gli stride nelle orecchie.
Sull’asfalto restano impressi i segni di grossi
pneumatici.
Una luce bianca gli toglie le immagini dagli occhi,
tranne una.
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