Gino il falegname amava così tanto la sua bambina che non sapeva come dimostrarle il suo affetto smisurato, e per questo non riusciva ad essere felice.
All’alba di ogni mattina, prima di scendere in
bottega, passava nella camera della figlia Michela e la guardava dormire
serena. Le accarezzava i capelli dolcemente e restava lì, seduto sul bordo del
letto, a fissare la sua piccola per un paio di minuti buoni. Alla fine si
decideva a lasciare la cameretta per portarsi in cucina e consumare una frugale
colazione.
Da quando era nata Michela il suo amore per la figlia
era cresciuto a dismisura. Era diventato grande quanto un brachiosauro e non
sembrava volersi fermare. Tuttavia, a dispetto della logica e della normale
reazione di qualsiasi altro papà, il sentimento che Gino provava non lo rendeva
affatto più allegro, ma lo turbava profondamente.
I grandi non sapevano dei sogni dei bambini e i
bambini si erano abituati a non raccontarglieli più. Solo Michela, una sera che
il suo papà aveva finito presto di lavorare, gli aveva fatto una confidenza.
Gino corse in camera di Michela. E Michela era lì,
abbacchiata. Non era scesa in piazza con gli altri bambini, perché sapeva che
il ladro della luna era il suo papà e non voleva che qualcuno potesse
prendersela con lui. In quel momento il falegname comprese che l’aveva combinata
piuttosto grossa, che non aveva capito proprio nulla.
In molti si chiedevano la ragione di quel suo stato
d’animo. A partire dalla moglie, la mamma di Michela, che in più occasioni
aveva provato a scandagliare i pensieri del marito. Passati però sei anni la
donna ci aveva rinunciato quasi del tutto.
Gino era un bravo “legnamé”, come si soleva chiamare i
falegnami in quella terra un tempo piena di prati e ora diventata piena di case
e strade e automobili e fabbriche chiuse. Una terra che in una manciata d’anni
s’era del tutto trasformata e dove i bambini non potevano giocare più da
nessuna parte perché più nessuno aveva voglia di tollerare i loro schiamazzi.
Forse era anche per questo che Gino era triste, sognava un posto migliore dove
far crescere Michela.
Ciò che sembrava immutato nel tempo erano certe notti
d’estate, quando la luna era piena e le stelle le brillavano intorno come tante
sentinelle. Durante quelle serate, prima di dormire, i bimbi di tutte le città,
aprivano le finestre e guardavano, sospirando, quel candido pallone che se ne stava lì appeso al buio. Sognavano
un campo di calcio che poteva essere usato liberamente e che non esisteva da
nessuna parte. E immaginavano, grazie alla luna, gol memorabili che non
avrebbero mai segnato. Anche le bambine guardavano la luna, e volavano con la
fantasia. Si vedevano proiettate in alto nel cielo a rincorrere le
costellazioni o a chiacchierare amabilmente con quell’astro lucente e rotondo
che somigliava ad una faccia.
«Papà mi piace così tanto la luna che se potessi la
terrei per sempre nel mio cassetto».
Ma la luna non si poteva portare via dal cielo così
come niente fosse. Ci voleva quanto meno un piano. Gino inizio a rimuginarci
sopra giorno e notte. La luna sarebbe stato il regalo più bello che avrebbe
fatto a Michela. In questo modo sarebbe riuscito a dimostrargli tutto il suo
amore. Alla fine il falegname prese una decisione: avrebbe costruito una scala
di legno così lunga con la quale sarebbe salito fino alla luna per portarsela
via.
Impiegò molto tempo per costruire una scala a pioli
lunghissima che, all’occorrenza, poteva accorciarsi per essere trasportata
meglio. Dopodiché Gino scelse il palazzo più alto della sua città, un
grattacielo che non finiva mai e che era stato costruito proprio in mezzo
all’ultimo giardino pubblico del quartiere in appena tre giorni. Era un palazzo
tutto fatto di vetri dove dentro non era stato messo neppure un appartamento,
solo uffici e negozi, per lo più vuoti.
Il falegname appoggiò la scala su una parete del
grattacielo, la allungò tutta con una manovella, la fissò stabilmente al
terreno, e cominciò ad arrampicarvisi sopra.
Gino era un uomo umile, ma non sprovveduto, aveva
fatto qualche calcolo e aveva previsto che per arrivare alla luna ci avrebbe
messo un po’. Non si preoccupò neppure che qualcuno, al mattino dopo, potesse
spostare la scala. Sapeva che nessuno si faceva più domande, tutti erano
diventati ormai indifferenti. Con questa convinzione continuò a salire piolo
dopo piolo riposandosi solo qualche ora fin quando, la notte dopo la sua
partenza, arrivò in cima. La luna lo stava aspettando ad un tiro di schioppo.
Gino, con funambolico equilibrio si mise in punta di piedi sull’ultimo scalino,
si stirò più che poté e alla fine riuscì a prendere un lembo del lenzuolo che copriva l’astro. Lo
tirò a sé e la luna inizio a rimpicciolire. Divenne sempre più piccola fino a
che non fu più grande di un melone. Gino si infilò il melone in una borsa che
s’era portato dietro quasi sapesse che la luna si sarebbe rinsecchita.
La discesa fu più veloce. Il falegname ci mise solo un
giorno per tornare sulla terra. Ritirò la scala e si diresse verso casa. Vi
arrivò che il sole stava tramontando. Era tutto rosso di vergogna perché sapeva
che dopo di lui nessuno avrebbe schiarito la notte. Le prime stelline tristi
iniziarono ad accendersi, poi arrivò il buio ed era freddo.
Gino entrò nella camera di Michela e la trovò seduta
sul letto che guardava fuori dalla finestra. Gli si sedette vicino e tirò fuori
dalla borsa un sasso duro e rugoso. Lo porse alla figlia.
«Che cos’è papà?»
«È la luna, sono salito in cielo e l’ho presa per
regalartela. Per farti capire quanto ti voglio bene».
Michela prese il sasso fra le mani e grossi lacrimoni
le riempirono gli occhi fino ad annegarli.
Il falegname, esausto per l’impresa compiuta, pensò
che le lacrime della figlia fossero di gioia. Non si preoccupò di chiedere alla
bambina il motivo del suo pianto. Si congedò da lei e se ne andò a dormire.
Il mattino dopo il mondo era cambiato completamente.
Nelle strade c’era un fermento peggio che nelle bottiglie di gassosa. Era un
brulicare di persone, un vociare concitato dai megafoni. Nelle piazze e nelle
strade della città i bambini avevano organizzato un gigantesco corteo. Gli
adulti erano molto preoccupati, cercavano con tutti i mezzi di convincere i
propri figli a tornare a casa. Ma non c’era nulla da fare i bambini erano
determinati. Sugli striscioni erano comparse scritte inequivocabili:
RESTITUITECI LA LUNA
LA LUNA E’ STATA RAPITA
CHI RUBA LA LUNA RUBA I NOSTRI SOGNI
RIVOGLIAMO LA LUNA
O LA LUNA O LA VITA
(aveva esagerato qualcuno)
"Ma allora tu la luna non la vuoi?"
«No, papà. Voglio solo che tu mi voglia bene. Voglio
passare un po’ di tempo con te per giocare insieme. Per andare a comprare un
gelato o leggere un libro. E poi la luna è di tutti e senza di lei tutto è
ancora più triste».
Detto ciò Michela porse al papà il sasso a forma di
melone e lo abbracciò. Le calde lacrime del falegname sciolsero quel groppo
grande come il brachiosauro che da troppo tempo teneva prigionieri i sentimenti
dell’uomo. Quando si fu ripreso, mise la luna nel fondo della borsa e uscì di
casa.
Gino riprese la scala che aveva nascosto in bottega e
si diresse di nuovo al palazzo di vetro. Fuori i bambini si erano organizzati
in sitting e per la prima volta sembrava che riuscissero a dialogare con i
propri genitori. Il problema principale era quello della luna che era stata
rapita, ma lo spazio ad altre discussioni non veniva negato.
«Non ci fate mai giocare da nessuna parte» gridavano i
bambini.
«Ma vi fate male» ribadivano i genitori.
«Ci regalate sempre un sacco di giocattoli, ma non
giocate mai con noi» recriminavano i bimbi:
«Siamo impegnati a lavorare» sostenevano i genitori.
«Non ci chiedete mai cosa pensiamo» si lamentavano i
ragazzi.
«Siete piccoli, non avete ancora esperienze» si
difendevano le mamme e i papà.
«Passi lavare i denti la sera, ma i piedi me li tengo
sporchi» sostenne il solito facinoroso che nel marasma delle discussioni
tentava di portare l’acqua al suo mulino. Nessuno però gli diede retta.
Nel frattempo il falegname era tornato a salire verso
il cielo. Arrivò in cima all’ultimo piolo, prese dalla borsa la luna
rinsecchita e se la mise sul palmo della mano. Il sasso riprese colore e torno
a illuminarsi. Poi si librò come un palloncino verso l’oscurità e mentre saliva
nel cielo diventava sempre più grande. Le stelle sbrilluccicarono dalla
contentezza e Gino, per la prima volta, sentì il cuore gonfiarsi di felicità.
Tornato per l’ennesima volta sulla terra, il falegname
notò che le piazze e le strade si erano svuotate di bimbi manifestanti. Si
respirava un nuovo clima. Dalle finestre della case scorse famiglie intere
intente a cenare. Le televisioni erano spente e le risate echeggiavano
dappertutto.
Quando giunse sulla porta di casa Michela gli corse
incontro, anche la mamma li raggiunse poco dopo, i tre si abbracciarono e Gino
propose di andare a mangiare un bel gelato panna e cioccolato.
Michela era felice, lei preferiva la fragola al
cioccolato, ma per una volta avrebbe fatto un’eccezione.
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