sabato 18 gennaio 2014

Hollywood

Hollywood passava ogni mattina davanti all’ufficio postale di via Oberdan, e ogni mattina si soffermava a contare le persone incolonnate e inutilmente speranzose di sbrigare i propri affari senza dover perdere troppo tempo. La fila era sempre ben nutrita come al pranzo di ferragosto alla Casa di riposo.


Il vecchio passava, contava, e quando finalmente trovava la sua vittima, che di solito era sempre la persona più incazzata del gruppo, le si parava davanti e con fare teatrale gridava:

«Tu mi ucciderai!...un giorno tu mi ucciderai!» dopodiché Hollywood alzava i tacchi e se la squagliava verso piazza Santa Maria Maddalena.

Quella curiosa farsa era ormai entrata nella routine del paese e quasi nessuno ci faceva più caso. Chi si beccava la strampalata invettiva si limitava a scuotere la testa senza scomporsi e soprattutto senza smarrire la concentrazione che gli avrebbe fatto perdere il turno. Se il malcapitato era un forestiero le reazioni potevano essere diverse. Le donne d’una certa età si stringevano al petto la borsetta e cominciavano a tremare come neppure le foglie d’autunno. Altri avventori, ben più sanguigni e con le palle già ridotte a turbine, lo mandavano semplicemente a quel paese e chiusa lì.

Chiusa lì fino a che non riuscivano a mettere piede nell’ufficio e scoprivano che la coda era ancora lunga, e soprattutto quando s’accorgevano che al posto di uno dei due impiegati, proprio davanti al vetro dello sportello, capeggiava la foto del nuovo Papa con la mano benedicente alzata per aria e la scritta “torno subito”. In quel caso erano altre madonne che volavano.

Di buffo c’era che Hollywood, al secolo Alfio Tomasetti, si presentava alla posta agghindato in costumi che avrebbero meritato gli onori del carnevale di Venezia.

 Il Tomasetti era stato per oltre trent’anni aiuto costumista e primo guardarobiere di un famoso teatro di Milano. Fu qui, tra la polvere nascosta del guardaroba e quella del magazzino degli abiti di scena, che sbocciò, come un raro fiore di scarsa virtù, la sua passione per la recitazione. A recitare era un cane, ma in quanto ad amore per il palcoscenico ne aveva da vendere. Un giorno gli toccò persino d’esibirsi. Al Tomasetti parve un sogno che si realizzava anche se non ebbe neppure il tempo di rendersene conto.

Gli si mossero tutti intorno all’improvviso, lo vestirono da guardia giurata e gli coprirono la faccia di trucco mentre un giovane vice regista gli strillava sul muso la battuta che avrebbe dovuto scandire:

«Dunque ascoltami bene. Entri, recita la tua parte forte e chiaro, e subito dopo scappi via come se avessi il pepe al culo. Ora va».

E Alfio Tomasetti uscì sul palcoscenico e vi rimase meno d’un minuto. Recitò di tre quarti. Sul fondale un ufficio postale di cartongesso. Il pubblico neppure lo vide.

In paese, per quella sua attività e l’ossessione che l’aveva nutrito in gioventù e che, bisogna dirlo, contribuì non poco a fargli smarrire qualche ingranaggio nella testa, fu soprannominato Hollywood.

Il 24 maggio anniversario preciso della sua prima e unica apparizione teatrale, Hollywood indossò gli stessi abiti che lo avevano portato alla ribalta. Si calò in testa il berretto con lo stemma e si legò in vita il cinturone nero e il manganello. Imboccò via Oberdan che erano da poco passate le otto e trenta. Sul marciapiede della posta s’era già formata una piccola folla. Tra gli astanti c’era anche un giovane allampanato dalla zazzera scompigliata che si guardava intorno con un certo nervosismo. Hollywood lo notò subito e lo puntò.

«Tu mi ucciderai!...un giorno tu mi ucciderai!».

Ma ahimè! il vecchio guardarobiere, quel giorno, non ebbe il tempo neppure di fare due passi che si trovò spianata sotto gli occhi la canna lucida d’una rivoltella. Il giovane fece fuoco.

Bang. Bang.!!!

Due lampi azzurri sporcarono il nitore della bella giornata e un puzzo di polvere pirica s’infilò su per i nasi dei clienti della posta.

Hollywood cadde riverso a terra…

«Ah! Muoio…muoio…tu m’hai ucciso…odo le trombe angeliche sonar la mia ora…e vedo la luce del sole spegnersi negli occhi…muoio…muoio…muoio!» il vecchio reclinò la testa e chiuse gli occhi.

Mentre il Tomasetti moriva, un trambusto generale invase l’intera strada

«Hanno ammazzato Hollywood!…hanno ammazzato Hollywood!»

L’ingresso davanti all’ufficio postale fu subito libero come alla domenica mattina. Tacchi di donna e suole di cuoio improvvisarono un tip-tap stralunato. Il giovane rapinatore, ancora più sorpreso del povero matto, si diede alla fuga gettando lontano da sé la pistola. Ma inciampò, cadde, una macchina dall’altra parte della strada sgommò via. Il ragazzo tentò di rialzarsi, ma il dolore alla caviglia era feroce. La gente uscì dai bar, dai negozi, dagli uffici e gli fu addosso.

 Hollywood giaceva supino. Sul posto, prima dei soccorsi, giunse il capo dei vigili urbani che aveva fatto il militare. Vide l’arma abbandonata, la tirò su. Si tolse il cappello, si grattò la testa e s’avvicinò al vecchio steso come un Cristo sulla croce.

«Dai Hollywood levass soeu. Te see(t) stà bravu anca sta voeulta, pecaa che la ri(v)ultela lera’na scacciaratt».

 Poco dopo uno scandire di sirene annunciò l’arrivo imminente delle forze dell’orine. Mentre il rapinatore veniva fatto accomodare sul sedile posteriore di una gazzella dei carabinieri, il guardarobiere si spolverò i calzoni della divisa e certo di essere ascoltato da qualcuno mormorò:

«Me sa che dumàn me vestisi de muschetieer del re»      

 

 

          

  

 

 

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